Uscire dal solco (oppure: “aver fede”)

Metto le mani avanti

Intanto chiariamo una cosa: è tutta colpa di mia mamma.
Se non fosse per lei non sarei qui a parlare di religione. Da lei parte il mio senso di colpa, e quindi il mio bisogno di scusarmi, giustificarmi, spiegare.
Lei, da sempre, mi accusa di aver abbandonato la religione dei padri, di non credere. E, soprattutto, di non avere fede.

E allora mi ritrovo qui a parlare con me stesso, dopo aver parlato per l’ennesima volta con lei.
Siamo nel 2014, ho ancora la fortuna di avere mia mamma, e di averla vispa, vitale, in ottima forma soprattutto mentale.
E allora succede spesso che, quando siamo soli io e lei, e dopo aver mangiato, ci lasciamo andare alle nostre elucubrazioni quasi sempre religiose, perché è li che divergiamo. E ci si confronta sulle cose che ci vedono in disaccordo, altrimenti che bello c’è?

Siamo in disaccordo sulla religione da quando io ho superato i 15 anni di vita. Lei “crede”, io no. Beh, detta così mi pare troppo sintetica e troppo approssimativa. Lei crede, e su questo non ci piove. E’ cattolica, fervente, convinta. Va a messa quando può, ascolta Radio Maria, recita le orazioni. E si duole per me. Prega per me, per i miei figli, ma soprattutto si duole per il mio non credere e per il fatto che non ho battezzato i miei figli. Dice che li ho privati di un loro diritto, che ho tolto loro il “bene” di essere nel solco della tradizione.
Sarà, ma  questa argomentazione non mi convince gran che.
Però sono qui che ne parlo, che ci rifletto sopra. E allora vuol dire che mia mamma tocca un nervo scoperto,  e che io devo ancora concludere questo viaggio, posto che sia possibile concluderlo.

Le mie scuse

Mi scuso con chi legge, nel caso dovesse sentirsi offeso. Non è mia intenzione mancare di rispetto a nessuno, anche se capisco che alcune delle cose che scrivo possano risultare indigeste a chi crede. Non voglio fare lo spiritoso, anche se a volte mi piace condire con un sorriso una materia non certo leggera. Ma quel che scrivo è davvero la traccia onesta dei miei dubbi, delle domande che restano ancora senza risposta.

La presunzione e le buone letture

Prima di cimentarsi a scrivere di argomenti così pesanti uno dovrebbe leggere, leggere molto. Leggere le fonti, prima di tutto, i testi sacri. La Bibbia, i Vangeli, le lettere di San Paolo, gli Atti degli Apostoli e così via. Per poi passare alle riflessioni dei grandi, a San’Agostino, per esempio. Io di tutto questo ho letto qualcosa, ma non abbastanza. Ma ho ugualmente la presunzione di dire la mia. Perché esprimo le perplessità poco documentate di una persona comune, non di un addetto ai lavori. Certo, un pensiero mi inquieta. Se tanti Padri della Chiesa (per restare alla nostra religione cattolica, ma lo stesso discorso vale per tutte le religioni del mondo), se tanti letterati, filosofi, gente colta e non banale, se tutti costoro hanno preso la religione seriamente, ed hanno riflettuto, ed hanno ragionato, che probabilità ho io di non dire una serie di cavolate spaventose facendo l’elenco delle cose che mi lasciano interdetto? Poche, in verità. Ma lo faccio per chiarirmi le idee.

Credere o non credere (oppure: “serve fede per essere atei”)

Partiamo allora dall’inizio. Credere o non credere? Beh, vediamo di stabilire in cosa si dovrebbe credere. Il primo passo è “Credere o no in Dio”.
Ok, partiamo da qui.

Fra il credere ed il non credere non ho una posizione molto chiara. Mi vien quasi da definire “laica” la mia posizione al riguardo. Penso infatti che sia molto religioso sia l’atteggiamento di chi crede che quello di chi non crede. Senza scendere troppo nel filosofico, essere religiosi vuol dire credere ad un “qualcosa” che non possiamo vedere, toccare, ascoltare, dimostrare. Vuol dire credere ad un Dio creatore del tutto, ma che non possiamo incontrare, non nello stesso modo in cui incontriamo i nostri simili o qualsiasi altro fenomeno del nostro mondo materiale. Crediamo in Dio perché ce ne hanno parlato i nostri genitori o chi per loro, perché ci sembra logico che esista un creatore del tutto. Ma non perché ne possiamo fare un’esperienza diretta, fisica.
Ma, paradossalmente, mi pare molto religiosa anche la posizione di chi, risolutamente, non crede. Di chi afferma senza ombra di dubbio che “Dio non esiste”.
Seguimi un momento: se mi dici “sono assolutamente convinto che Dio non esista”, affermi questa cosa senza uno straccio di prova. Non può essere provata la “non esistenza” di alcunché. Possiamo formulare delle ipotesi, certo. Io sono ragionevolmente certo che non esistano cani volanti o balene che camminano. Ragionevolmente certo. Ma non posso esserne assolutamente sicuro. Per affermarlo con certezza dovrei fare un salto logico dalla ragionevole certezza alla assoluta sicurezza, e questo è un atto di fede. Stessa cosa per l’esistenza di Dio. Ci vuole fede per affermare con assoluta certezza che Dio non esiste.

Ci vuole un atto di fede sia per credere che per non credere. Un atto di fede in qualcosa di non dimostrabile.
Nel caso di Dio, fra l’altro, a parer mio ci vuole più fede per negarne l’esistenza che per sostenerla.
Voglio dire: in fondo è più facile credere che esista qualcuno/qualcosa che abbia creato quel che ci circonda, rispetto a credere che invece questo qualcosa sia in qualche modo sempre esistito. La nostra esperienza personale, che è in fondo il metro con cui misuriamo il mondo, ci dice che tutte le cose che ci circondano sono state fatte da qualcuno, e mi riferisco ai manufatti, alle case, ai tavoli, alle sedie, a tutto quel che non esiste in natura. Diciamo che le case non si costruiscono da sole, ci vuole almeno un progettista  ed un esecutore. O quanto meno qualcuno che si assuma entrambi i ruoli. E questo è vero per tutto quel che è “manufatto”. Resta la natura, gli alberi, le nuvole, le stelle e i pianeti, e gli animali e tutto il resto. Usando come metro la nostra esperienza umana, non ci si stupisce se qualcuno applichi l’analogia e pensi ad un progettista del cosmo e dell’universo. In questo caso sarebbe sia progettista che, in qualche modo, esecutore.
Personalmente, laicamente, penso che l’ipotesi del sommo progettista non mi pare poi così incredibile. Mi capita spesso, molto spesso, di guardare  alcuni miracoli di bellezza naturale. Non parlo del tramonto o del sorriso di un bambino, che sono spettacoli belli agli occhi di chi li guarda. Un tramonto è bello perché mi piace quell’insieme di colori, ma diciamo che è soggettivo. Il sorriso di un bambino mi piace perché come tutti gli animali ho un particolare senso di tenerezza nei confronti dei cuccioli. Non è infrequente che questo senso di tenerezza scavalchi i limiti di specie e porti un predatore a proteggere i cuccioli di una razza predata. La leonessa che protegge l’agnellino ecc ecc. Questi sono esempi di bellezza “soggettiva”, può piacere a me, per mille motivi, ma magari a te no.
Ma ci sono spettacoli che a mio parere hanno  in se una sorta di bellezza oggettiva, che va al di la del mio piacere personale, che può essere influenzato da mille elementi culturali.

La creazione come arte

Guarda questo pavone che fa la coda. Guarda la bellezza geometrica e artistica di queste penne, delle piume, la terminazione ad Y di ogni penna, la perfezione della “ruota” con il pavone al centro. Se poi guardi il video qui sotto, dove il pavone apre la coda e fa la danza

rituale del corteggiamento, viene difficile pensare che non ci sia un artista dietro a tutto questo.
Insomma, la natura è prodiga di situazioni di una bellezza talmente geometrica, talmente (vien da dire) artefatta, che viene spontaneo pensare che tutto questo sia frutto di un momento di creazione artistica.
Diciamocelo, non è poi così difficile credere all’esistenza di un artista che sia responsabile di alcune creazioni di una bellezza tale che mi piace definire “geometrica”.
Si perché c’è bellezza e bellezza.
La bellezza di un viso femminile è in qualche modo opinabile, dipende dalle razze umane, dalle culture, dalle epoche. Sono alcune creazioni del mondo animale e vegetale, talmente elaborate, talmente complicate, da rendere difficile la loro semplice attribuzione al processo casuale di evoluzione darwiniana. E’ come, permettimi, se un artista usasse il pennello darwiniano per ottenere delle opere d’arte incredibili.
Sono queste le cose che mi portano a pensare che in fondo sia molto più facile “credere” che “non credere”. Nel senso che serve molta più “fede” per essere atei. Occorre veramente fare un grande atto di fede, una specie di salto nel buio.

Personalmente non so se definirmi un “credente” o un “non credente”. Molto laicamente direi che mi pare più plausibile, scientificamente, credere all’esistenza di un creatore. Se dovessi applicare alla nostra riflessione il metodo del rasoio di Occam (« A parità di fattori la spiegazione più semplice è da preferire »), mi pare che davanti ad una opera d’arte incredibile sia più “semplice” pensare che qualcuno l’abbia fatta, piuttosto che pensare che sia frutto di una fortuita successione di casuali mutazioni genetiche. E qui mi fermo, perché non sono tanto religioso da appoggiare a spada tratta una ipotesi o l’altra.
Mi piaceva solo proporre un paradosso: serve molta più fede per essere atei, o “non credenti”. Essere “credenti” non è un atto di fede, basta lasciarsi guidare dal senso comune, dall’esperienza quotidiana.

A cosa credere?

Liquidata così la questione dell’essere credente o non credente, passiamo ora al passo successivo: a cosa credere?
Ammettiamo che io abbia deciso far contenta la mia mamma, e di credere all’esistenza di un creatore. Chiamiamolo Dio, per abitudine e per tradizione. Il passo successivo, se si vuole restare nel solco della religione dei padri, è quello di credere in tutto il resto. Nel Verbo che si fece carne ed abitò fra noi.
In realtà occorre fare parecchi salti indietro, prima di occuparsi del Verbo.
Diciamo comunque che la nostra religione si  basa sul concetto di rivelazione biblica. Tutto parte dai libri sacri. Come è d’altra parte per quasi tutte le religioni del mondo. C’è quasi sempre alla base “il Libro”. Siano essi i Sutra per buddisti ed induisti, sia il Corano per i musulmani, sia la Bibbia per noi e per gli ebrei.
La nostra Bibbia ci racconta, in estrema sintesi, questa storia (e quando la racconto così mia mamma si arrabbia parecchio):
Dio creò l’universo, il sole, le stelle, la terra, gli animali e le piante. Poi creò l’Uomo. A lui consegnò il paradiso terrestre dove avrebbe potuto vivere senza conoscere morte e sofferenze. Però…. (c’è sempre un però…) avrebbe dovuto rispettare un’unica regola, quella di non nutrirsi del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male.

E già qui sorge spontanea la domanda: mi crei all’apice della piramide delle creature, la più evoluta, la più intelligente, mi fornisci un cervello fantastico, esplosivo, e poi mi dici “non usarlo, non nutrirti del frutto dell’albero della conoscenza”. Sarebbe come regalare una Ferrari ad un adolescente e dirgli “però non correre”. No certo, la Ferrari la uso per tirare l’aratro, mica per correre….
Comunque, come ben sappiamo, l’Uomo tutto fece meno che dar retta all’unico precetto. Incuriosito, la Narrazione ci dice che sia stato tentato dal Serpente che aveva già convinto Eva, Adamo si nutrì di quel frutto. E Dio non prese la cosa molto bene. Decidendo di punire l’Uomo e tutta la sua discendenza, condannandoli tutti, noi compresi, ad una vita di sofferenze che si conclude, di solito dolorosamente, con la morte.
In questa fase non c’è traccia del Dio misericordioso, del padre amorevole di cui ci parlano solitamente i nostri parroci. E’ molto più calzante quel che dice il Deuteronimio 5,6-21: “Perché io il Signore tuo Dio sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione per quanti mi odiano” . E, in più, mi pare che il limite della terza e quarta generazione sia stato ampiamente superato.
Comunque, sia come sia, ad un certo punto Dio decise di mettere fine a questa faida, per quando piuttosto monolaterale. Diciamo che l’Uomo non aveva molte possibilità di difendersi, era stato cacciato dal Paradiso Terrestre e non c’era verso di tornare, nonostante fossero passate ben più delle tre o quattro generazioni citate.
Infatti Dio fece la prima mossa, dato che l’Uomo non poteva, e decise di mandare sulla terra il Figlio (ecco il Verbo che si prepara a farsi carne). Se ne parla nel VI secolo a.C nella Genesi 49,10c “10 Lo scettro non sarà rimosso da Giuda, né il bastone del comando di fra i suoi piedi, finché venga Colui che darà il riposo, e al quale ubbidiranno i popoli. “, sempre nel VI secolo a.C in Daniele 9,25 ecc25 Sappilo dunque, e intendi! Dal momento in cui è uscito l’ordine di restaurare e riedificare Gerusalemme fino all’apparire di un unto, di un capo, vi sono sette settimane; e in sessantadue settimane essa sarà restaurata e ricostruita, piazze e mura, ma in tempi angosciosi. 26 Dopo le sessantadue settimane, un unto sarà soppresso, nessuno sarà per lui. E il popolo d’un capo che verrà, distruggerà la città e il santuario; la sua fine verrà come un’inondazione; ed è decretato che vi saranno delle devastazioni sino alla fine della guerra. 27 Egli stabilirà un saldo patto con molti, durante una settimana; e in mezzo alla settimana farà cessare sacrifizio e oblazione; e sulle ali delle abominazioni verrà un devastatore; e questo, finché la completa distruzione, che è decretata, non piombi sul devastatore”. Certo, non sono parole facili da interpretare, comunque pare che questi siano i passaggi che annunciano la venuta di Cristo. Ora non voglio fare sfoggio di una erudizione che non ho, i brani citati sono tutti frutto di ricerche fatte al volo su Google. Sta di fatto che, secondo le scritture, Dio decise di “far la pace” con il genere umano mandando da noi il Figlio. E, senza farla troppo lunga, il Figlio sarebbe venuto ad annunciarci la salvezza, ma era previsto dalle scritture che non sarebbe stato creduto, e sarebbe stato torturato ed ucciso. Insomma, il Padre manda il Figlio per fare la pace, per perdonarci, e perché venga sigillato questo patto occorre che il Figlio venga torturato ed ucciso dagli stessi uomini che viene a perdonare.

Ecco, qui si che serve la fede, tanta, tanta fede. Come credere, altrimenti, ad una costruzione letteraria di questa fatta?
Credere al Creatore viene quasi naturale, è più faticoso non credere. Ma come si fa a credere ad un “Padre amoroso e misericordioso” che prima condanna a morte e sofferenze il peccatore primo e tutta la sua progenie, e poi per “far la pace” manda suo Figlio a farsi  massacrare consapevolmente proprio dagli uomini che vuole salvare?

A volte mi piace immaginare di raccontare queste ed altre cose del nostro mondo al mio amico marziano Krodlik in visita di cortesia sul nostro pianeta. Mi chiede, curioso, della religione, di cosa significa, a cosa serve. Mi chiede della nostra religione cattolica. Io gli racconto quel che posso. E la sua faccia mi ricorda quella di David Bowman in 2001 Odissea nello Spazio

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E’ qui che io mi fermo, e non riesco ad andare avanti.
Mi si dice: “e’ un mistero”, oppure: “bisogna avere fede”. Che sia “un mistero” e che serva molta, molta fede per credere a questa costruzione, mi pare ovvio. E’ una narrazione talmente incredibile che per crederci serve tutta la fede di questo mondo. Quel che non capisco è perché ci si debba sforzare. Perché “bisogna”? Perché “si deve”?

Religione e coesione sociale

Certo, in tutto questo gioca un ruolo pesante la tradizione. La stabilità sociale si basa anche su questi elementi. Il rispetto della tradizione crea coesione sociale, continuità culturale, aggregazione. I riti religiosi sono un potente collante sociale e culturale.  Tant’è vero che molta gente si professa religiosa senza aver davvero riflettuto sui veri contenuti della religione che professa, senza davvero chiedersi se crede ad ogni dettaglio.
Ed è facile estendere queste considerazioni nel tempo e nello spazio. La religione svolge da sempre, ed ovunque, un ruolo essenziale nella coesione sociale. Qualcuno, maliziosamente, dice che anzi la religione gioca da sempre un ruolo essenziale nel controllo sociale, e non è proprio la stessa cosa.
Comunque queste considerazioni valgono ovunque, e sono le stesse da sempre. Non è neanche facile credere alla costruzione simbolica musulmana, che prende origine in buona parte da quella ebraico-cristiana. E se andiamo a guardare da vicino le altre religioni, ci accorgiamo che anche li è richiesta molta “fede” per credere, ma che comunque “bisogna credere”. Ed è un “bisogna” tutto laico, tutto sociale. La “fede” serve a garantire la coesione sociale, a fornire un orizzonte culturale comune e trascendente. Il che non guasta, perché gli altri elementi di coesione culturale, quelli politici, soffrono del confronto che la gente può fare fra promesse e risultati. Il trascendente invece non si giudica, non soffre di alcun confronto. Il trascendente si accetta per “fede”.
Nasciamo già inseriti in una struttura religiosa sociale. I nostri genitori sono normalmente sposati in chiesa, noi veniamo battezzati subito, poi il catechismo, la prima comunione, la cresima. E nel frattempo ci sono le feste religiose, il Natale, la Pasqua, la festa del paese. Nei paesi del sud ci sono strutture religiose e sociali molto forti che girano intorno alla festa del santo patrono, le confraternite e tutto il resto. Non lasciarsi coinvolgere in queste strutture sociali vuol spesso dire restare isolati. Uno ci si ritrova dentro quasi senza accorgersene. Certo, nelle grandi città industriali del nord tutto questo è praticamente scomparso. Ma al sud, soprattutto nei piccoli centri, è una presenza ancora molto forte. Tanto che è difficile capire se uno viene preso più dal messaggio religioso in se stesso o dalla sua componente sociale. In pratica succede che uno nasce e si ritrova a “credere” in maniera più o meno automatica,

C’è da chiedersi però se la fede debba riguardare qualcosa di “vero” o no. E questo lo chiederei, se ce ne fossero, ai miei lettori. Quanto è importante che sia “vero” quello a cui credere?

La fortuna di essere nati “qui ed ora”

Tutti, immagino, pensano di credere alla “vera religione”. Sarebbe davvero strano se uno continuasse a professarsi “credente” pur avendo maturato la consapevolezza di credere in qualcosa di non vero, di sbagliato.
Ma le religioni, nel tempo e nello spazio, sono tutte diverse l’una dall’altra. Per piccoli dettagli o per grandi differenze.
E tutti sono convinti di credere nella “vera religione”. I musulmani, gli ebrei, i cattolici, i protestanti, gli induisti. E risalendo nel tempo, gli antichi egizi, i greci, i romani. Ed estendiamo pure le stesse considerazioni nello spazio, a tutti i paesi del mondo, e nel tempo risalendo nel passato o spostandoci in un ipotetico futuro.
Ma è chiaro che non possono essere contemporaneamente vere religioni diverse. Una sola può essere quella vera. Le altre, tutte, dovranno sbagliare in qualcosa.
Quindi ognuno di noi “credenti” dovrà essere convinto di essere stato baciato dalla fortuna e di essere nato nella nazione giusta al momento giusto. Tanto per dire, nascere in Italia nel 200a.C. non sarebbe stato utile per incontrare la “vera religione”. Così come non sarebbe utile nascere in Thailandia nei giorni nostri. Non sarebbe facile (per quanto non impossibile, i cattolici sono lo 0,75%) incontrare ad esempio la religione cattolica in Thailandia. D’altra parte, statene certi, anche in Thailandia hanno la fortuna di aver trovato la “vera religione”, ovviamente la loro, ossia il Buddhismo.
Comunque, ogni paese ha la sua “vera religione”, ed ha avuto in passato altre “vere religioni”.
E quindi ogni credente del mondo e della storia finisce per rallegrarsi per essere nato nel paese giusto e nel periodo storico giusto per incontrare quella che lui crede essere “la vera religione”.
Viene quindi da pensare che ognuno creda nella religione che la sorte gli assegna. Se nasci nell’Italia prima di Cristo credi negli dei dell’Olimpo. Se nasci un paio di secoli dopo ti ritrovi cattolico. Discorso analogo se nasci nei paesi arabi, o in Tibet, o in Giappone ecc ecc. Ognuno abbraccia con più o meno entusiasmo e convinzione la religione che la sorte gli assegna. E purtroppo a volte, più spesso di quanto non vorremmo, si ritrova a sacrificare la propria vita per difendere la sua religione contro un’altra religione. Quella, ovviamente, degli infedeli.
Mia mamma, inutile dirlo, è convinta di credere nell’unica “vera religione”.

Ma le religioni sono tutte uguali perché Dio è sempre comunque Dio.

Mica tanto vero. A parole si, certo. Grandi professioni di ecumenismo, e incontri ad Assisi fra i rappresentanti delle tante fedi. Ma all’atto pratico poi, nei secoli passati ed anche oggi, si finisce per fare a botte. Ma con gli eserciti. Le Crociate sono solo un esempio. Otto guerre di religione, fra cattolici e protestanti, nella Francia del XVI secolo. E l’Europa che fu straziata fra il XVI ed il XVII secolo dalla seconda guerra di Kappel del 1531, dalla  guerra di Smalcalda del 15461547, dalla  guerra degli ottant’anni nei Paesi Bassi, dalla  guerra dei trent’anni e dalla guerre dei tre regni in Gran Bretagna. Ma questo è un elenco quanto mai riduttivo. Tutti convinti di difendere l’unica vera religione, e tutti pronti ad uccidere e farsi uccidere per questo. Si potrebbe obiettare che dietro alle guerre di religione ci sono troppo spesso motivi politici ed economici. Certo! Ma dal punto di vista dei poveracci che andavano a morire, si trattava sempre di combattere per l’unica vera religione.
E poi, comunque, le mille varianti di ogni religione che senso hanno? Cattolici, ortodossi, protestanti, anglicani, evangeligi, mormoni, quaccheri, hamish e chi più ne ha più ne metta. Tutti convinti di essere portatori di verità. Sarà anche vero che poi Dio è uno, ma mi pare che ognuno sia convinto che il proprio Dio sia meglio di quello del “vicino”!

Una domanda per te che sei credente

Ok, sei credente e sei convinto di essere nel giusto. Ma dimmi: e se tu fossi nato, mettiamo, in Israele da una famiglia ebrea? O magari in Germania da famiglia Luterana? Per non dire, Dio non voglia, in Arabia Saudita da famiglia musulmana. Non pensi che saresti ugualmente convinto di avere avuto l’incredibile fortuna di essere nato nel paese giusto e nella giusta epoca storica? Non pensi che in fondo il credere sia il frutto di una totale casualità? Che dipenda al 99% da dove e quando nasci?

Conclusione

Beh, “conclusione” è una parola grossa. Non sono arrivato da nessuna parte, con le mie elucubrazioni. Ho solo messo in fila, in ordine, pensieri sparsi. Domande che da tempo affollano la mia mente. Confesso che mi piacerebbe credere. Ma credere tanto per credere non mi pare il caso. Ci vuole convinzione, e quella manca del tutto. Continuerò a leggere, questo si. Questo sempre.

E comunque il buon Natalino Balasso, scherzando scherzando, in questo video ha detto molte delle cose che penso: