Guyana

Son qui da tre giorni, e un’idea di massima me la sono fatta: ho scelto la

La Guyana Francese
La Guyana Francese

stagione sbagliata. Pioggia, pioggia e ancora pioggia. E quando non piove, il cielo è comunque coperto. Tanto che non riesco minimamente ad orientarmi con il sole.

 

Di solito scende una pioggia leggera, fine, di quelle che pensi che non ti serva neanche l’ombrello, ma poi ti ritrovi fradicio. Poi, ogni tanto, uno scroscio di qualche minuto che sembra che debba scendere il diluvio universale. E di notte mi sveglia il rumore della pioggia sul tetto.

La temperatura oscilla fra i 23 e i 30°C. Ma l’umidità è sempre a livelli massimi, e i condizionatori sono ovunque.

La Guyana francese vive di ESA (European Space Agency), o meglio di Centre Spatial Guyanese (CSG). Il grosso dell’economia sembra girare attorno ai missili. A Kourou, dove sono in questo momento, lo spazio lo vedi anche per strada, nei cartelloni pubblicitari, sui muri, nelle gare di maratona.

Si consideri infatti che fino al 1960 la popolazione di qui era stabile, o in calo, intorno alle 1000 persone. Poi, da quando è arrivato il CSG, c’è stata un’impennata verticale che ha portato il numero di abitanti da 1000 a 25000

Centre Spatial Guyanèse
Centre Spatial Guyanèse

Qui vengono preparati e lanciati i missili Arianne (francese), Vega (Italiano) e Sojuz (Russo). Il posto è ideale, il migliore, perché al riparo dalle grandi tempeste, vicino all’Equatore (maggior velocità tangenziale), vicino al mare (quindi se il missile cade è probabile che vada in mare), praticamente disabitato e con molto spazio a disposizione.

Il centro spaziale è infatti un territorio

Mappa del CSG
Mappa del CSG (click per allargare)

enorme, con piccoli gruppi di costruzioni isolate, in modo che un eventuale incidente in un sito (i missili hanno il brutto vizio di esplodere) non danneggi edifici e attrezzature degli altri siti. Il risultato è che per andare da qui a li, o da “casa” al CSG si fanno le decine, a volte le centinaia di km al giorno.

Quanto agli abitanti,  ci sono i “locali” e i “missionari”. I locali sono per lo più neri. Alcuni sono molto, molto neri e belli. Altri sono così così, di provenienza brasiliana. Meno belli dei neri-neri che non so di che origine siano. Sembrano senegalesi.

I “missionari” invece sono per la quasi totalità bianchi, per lo più di origine francese o italiana. La missione dura un massimo di tre anni, rinnovabili per altri tre. Poi, comunque sia, si torna a casa. I pochi bianchi locali son coloro che hanno deciso di stabilirsi qui e aprire una attività loro. Qualche negozio, qualche ristorante, o qualche azienda di servizi tecnici e commerciali per il CSG. Ce n’è parecchi che una volta arrivati qui non se ne vogliono più andare via. Una specie di mal d’Africa, anche se siamo in sud  America. Come sempre, “chechez la femme”! Ci si innamora di qualche bellezza locale e non si torna più a casa.

La vita in Guyana Francese è strana, perché per certi versi sembra d’essere in Francia. La lingua, la moneta, i negozi, le leggi, è tutto francese. Per me, che non sono in grado di cogliere le sfumature dialettali, il francese di qui  sembra semplicemente francese, non colgo la differenza. Però siamo in sud America. E allora succedono cose strane. Le leggi in Guyana sono le stesse della Francia, ma le condizioni economiche e produttive sono molto diverse, allineate alla realtà dell’America latina. Questo comporta il fatto che qui non si possono produrre e vendere beni che non rispondano alle normative francesi e europee. Il risultato è che praticamente tutto viene importato dalla Francia o dall’Europa, quel che loro chiamano “le Metropòle”. Generi alimentari, vestiario, elettrodomestici, vestiti, persino la benzina, arrivano tutti dal Metropòle. I costi di trasporto sono notevoli, e il risultato è che qui il costo della vita è addirittura superiore a quello francese. Persino i rifiuti vengono rispediti “au Metropòle”, perché qui non ci sono aziende in grado di trattarli secondo le norme europee. Per rimediare in parte a questa situazione la Francia deve contribuire con delle sovvenzioni particolari o con delle detassazioni, altrimenti sarebbe difficile vivere e lavorare.

Ogni tanto la situazione si fa calda, e i locali organizzano degli scioperi abbastanza duri, come nella tradizione francese. Bloccano le strade d’accesso al CSG, all’aeroporto e alla città, per costringere le autorità centrali a rivedere le regole di contribuzione e defiscalizzazione. Recentemente c’è stato uno sciopero abbastanza lungo, e alla fine i locali hanno ottenuto una parte delle rivendicazioni.  Ma la situazione si era fatta complicata, nessuno arrivava, nessuno partiva, nessuno andava a lavorare al CSG, e persino i supermercati e i benzinai iniziavano ad andare in difficoltà.

Per il resto non si segnalano turbolenze di sorta. Bisogna dire che qui non c’è un movimento autonomista significativo. Pare ci sia stato un referendum, qualche tempo fa, che ha visto i locali votare per restar francesi. Ed è comprensibile, lo stato sociale francese è certamente meglio di quel che offrono gli stati vicini. Diventare indipendenti sarebbe un suicidio economico.

Un altro aspetto di questa situazione è che c’è gente che fa di tutto per entrare in Guyana Francese dai paesi vicini, soprattutto dal Brasile, per poter approfittare dello stato sociale francese. Qui vale la legge del diritto di nascita, e i bambini nati qui sono francesi a tutti gli effetti, e hanno diritto a istruzione, sanità e tutto il resto, esattamente come i francesi di Francia.

D’altra parte ho la sensazione che lo stato sociale qui si prenda cura di tutti, in modo molto efficace. La sensazione mi viene dal fatto che ho visto molti edifici, piuttosto ben fatti, che sembrano abitati per lo più da neri poveri. Sembrano, insomma, case popolari.

 

La città più vicina al CSG si chiama Kourou, 25’000 abitanti, una cittadina fatta di grandi spazi verdi, molte case ad un piano solo con il giardino intorno, pochi edifici più grandi. La definirei una città diluita, omeopatica. Negozi, ristoranti, banche come in Francia. Ma grandi prati, pezzi di foresta, casette basse e bianche, vicoli stretti,  e tetti di latta che ricordano un po’ le periferie del sud America. Non esiste un vero centro storico, per come l’intendiamo noi europei, con gli edifici di una volta e le stradine e i ristorantini e tutto il resto. C’è la città, tutta più o meno uguale. Ho come la sensazione che sia cresciuta di recente, dagli anni 60 in poi.

Il clima nei giorni della mia permanenza è quello della “piccola stagione delle piogge”, alla fine di Febbraio. Poi verrà qualche giorno di bel tempo, e poi ci si aspetta la “grande stagione delle piogge”. Siamo all’equatore, quindi giorni tutti uguali come durata. Quel che cambia è solo la presenza o meno della pioggia e del sole.  Per il resto la temperatura non scende mai sotto i 18°C e non sale mai sopra i 35°C (click qui sotto per le statistiche)

Statistiche Meteo Kourou
Statistiche Meteo Kourou

Una cosa caratteristica di questi posti, e in genere di tutte le colonie francesi, è la presenza della Legione Straniera.

Quartier Forget
Caserma della Legione Straniera
Legione Straniera
Addestramento dei Legionari

Storicamente alla legione poteva accedere chiunque cercasse un lavoro ben pagato e massacrante, con una disciplina ferrea. La selezione non era schizzinosa riguardo ai precedenti penali, il che faceva si che gente nei guai con la giustizia, per evitare di andare in galera finiva per arruolarsi nella Legion. Non so se oggi la storia sia la stessa, mi dicono che la maggioranza dei legionari qui a Kouru sono di origine serba o comunque dell’est Europa. Il che si spiega con uno stipendio di buon livello e nessuna competenza specifica richiesta. Occorre solamente essere pronti ad accettare una disciplina molto rigida. Una cosa strana, rispetto a quel che ci si potrebbe aspettare, è il comportamento dei legionari in libera uscita. Come da copione vanno in giro a bere e ad ubriacarsi, ma il loro comportamento resta assolutamente corretto. Niente risse, niente disturbi, niente molestie. Mi dicono che al primo sgarro sei fuori, o quanto meno che le risse e i comportamenti molesti non siano accettati e vengano pesantemente puniti.

I legionari li vedi, in gruppo, fare footing sui viali alberati, per lo più biondi, muscolosi, e con i pantaloncini bianchi.

La fauna è prevedibilmente un po’ diversa dalla nostra. Ho visto strani uccelli, grossi e con il piumaggio scuro, in grandi colonie. Non li caccia nessuno perché la carne pare non sia granché.

E ho visto strani animali, i Capybara, anche questi in gruppi tranquilli.

Capybara
Capybara

Sono grossi roditori con il manto scuro. Li vedi in branco, anche sul bordo della strada. Brucano tranquilli, senza paura.

E soprattutto ho sentito i GRILLI, che hanno una voce potente, sembra quasi il canto di un uccello o uno di quegli allarmi di casa con la sirena elettronica.

Per quanto riguarda gli insetti, io ho fatto conoscenza solo con qualche rara mosca e…. LE FORMICHE!

Una cosa che impari subito, qui, è a non lasciare niente in giro. Lo zucchero va tenuto in frigo o in vasetti sigillati. I piatti e le tazze, se non hai la lavastoviglie, li devi lavare SUBITO dopo pranzo o cena, non importa quanto stanco tu sia. Altrimenti ti ritrovi un gigalione di minuscole formiche, rapidissime, che godono dei tuoi avanzi! Stessa cosa per la tovaglia e per eventuali briciole per terra. Dopo un po’ stare attenti diventa un riflesso condizionato. Mi hanno detto che gli scarafaggi hanno bisogno di una portaerei per atterrare e decollare, ma ancora non ho avuto il (dis)piacere di vederli per casa.

Poi c’è una cosa strana, che si verificava soprattutto anni fa. Ci sono le farfalle cenerine che quando volano rilasciano una polverina molto urticante, che può causare forti allegie. Tanto che quando c’è l’invasione di queste farfalle si decide di spegnere le luci della città, lasciando accese solo delle luci rosse alle quale le farfalle non sono sensibili. E si puntano grossi fari sull’acqua  del lago, in modo che le farfalle vadano ad annegarsi in massa attirate dalla luce. La situazione è comunque migliorata da quando i legionari hanno tagliato la maggior parte delle mangrovie di cui si cibano le farfalle. Ma pare che queste abbiano iniziato a cambiare “ristorante”, iniziado a cibarsi di altre piante all’interno. La natura è sempre più forte di noi…

Chi viene qui deve fare la vaccinazione contro la febbre gialla, almeno 10 giorni prima di partire. Questo è il tempo necessario per essere immuni. Io non lo sapevo, e ho dovuto fare la vaccinazione all’aeroporto di Parigi.  Ma per la questione dei 10 giorni non mi volevano lasciar partire lo stesso. Insistendo all’italiana son riuscito a partire, ma mi hanno raccomandato di proteggermi per i primi 10 giorni con la lozione anti-zanzare. A dire il vero non è la stagione peggiore per questi fastidiosi animaletti, ma è meglio evitar di trovare la zanzara tigre fuori stagione e particolarmente motivata a diffondere la malattia.

Una cosa onnipresente in Guyana è la muffa. Tutte le costruzioni, dopo pochissimo tempo, portano tracce evidenti di umidità. 

Il mare mi han detto che è meglio evitarlo. E’ sporchissimo, a causa dei fiumi che arrivano dall’Amazzonia. Siccome piove molto, i fiumi sono fangosi e trasportano il fango a mare, il che rende l’acqua torbida e la costa fangosa. La foto qui sotto, presa dal satellite, fa vedere la fanghiglia che si raccoglie vicino alla costa da Sinnamary (a nord) a Cayenne (a sud).

Vista dal satellite
Vista dal satellite

Se si vuole fare il bagno conviene andare a l’Ile du Diable,  di fronte a Kourou, dove c’era la colonia penale di Papillon. C’è un traghetto che parte la mattina e torna la sera, con visita al museo e alla prigione.

Infatti da quel che mi dicono i locali non hanno l’abitudine di andare al mare a fare il bagno, benché la temperatura lo permetta tutto l’anno. Al massimo portano i bambini in spiaggia a giocare con la sabbia. Ma difficilmente entrano in acqua. Ecco qui sotto qualche immagine del mare nella zona chiama “Plages des Roches”.

Il Centro Spaziale Guyanese

Parlando del mio viaggio a Kourou mi sono accorto che molta gente ignora del tutto quale sia l’attività spaziale europea. Tutti (quasi tutti) sanno cos’è la NASA, cos’è lo Space Shuttle, ma pochi sanno che l’Europa ha effettuato nel 2016 sei lanci spaziali, ossia l’undici percento dei lanci spaziali mondiali

Il numero maggiore di lanci è effettuato dagli USA e dalla Cina, seguiti dalla Russia e poi dall’Europa, dall’India ecc ecc.

Il CSG nasce francese nel 1964, per decisione del gen. Charles De Gaulle. Il primo lancio di un missile Veronique avviene quattro anni dopo, nel 1968. Quando nel 1973 viene creata l’Agenzia Spaziale Europea (ESA), la Francia propone l’utilizzo del CSG per le attività comunitarie. In questo modo l’ESA finanzia i due terzi del costo di gestione del CSG.

Arianne 6
Arianne 6

Vede così la luce la famiglia dei vettori Arianne, arrivata oggi al quinto membro Arianne 5, con il sesto membro Arianne 6 il cui primo lancio è previsto per il 2020. 

I missili Arianne  vengono usati per la messa in orbita di satelliti commerciali, militari o scientifici.  L’Arianne 5, con un peso al lancio di 750 tonnellate, può mettere in orbita bassa un carico di 18 tonnellate o di 7 tonnellate in orbita GTO (Orbita di Trasferimento Geostazionario)

 

 

Lanciatore VEGA
Lanciatore VEGA

 

Ma dal CSG di Kourou non vengono lanciati solo missili Arianne. Nel 2010 è infatti avvenuto il primo lancio del “piccolo” missile VEGA, 137 tonnellate al lancio, con un carico utile in orbita bassa di 2,5 tonnellate. Il VEGA è un progetto in gran parte (65%) italiano. 

Video interessanti sul VEGA:

 

 

 

Missile Soyuz
Missile Soyuz

E infine, dal 2011, dal CSG vengono lanciati anche i missili Soyuz,  300 tonnellate alla partenza, 3.5 tonnellate di carico utile in orbita GTO. E’ infatti stato fatto, nel 2002, un accordo fra ESA e l’agenzia spaziale russa per la costruzione di vettori Soyuz modificati per il lancio dal CSG. Il vettore Soyuz copre la fascia media rimasta libera fra i vettori Arianne-5 e i vettori VEGA. In questo articolo si parla molto nel dettaglio della realizzazione del poligono di lancio delle Soyuz al CSG di Kourou.

 

 

I missili vengono per lo più costruiti in Europa ed inviati poi in Guyana, al CSG, per l’assemblaggio ed il riempimento con il carburante e infine per l’assemblaggio finale che consiste nel mettere il carico utile (i satelliti da lanciare) nella capsula in cima al missile. Questa capsula serve a proteggere i satelliti al momento del lancio e dell’attraversamento dell’atmosfera. Poi, una volta fuori dall’atmosfera, la capsula si apre e i satelliti vengono “depositati” ognuno nella sua orbita. 

Per questo al CSG esistono vari siti, e in ogni sito viene eseguita una determinata operazione. Questo è vero per l’Arianne 5, che viene trasporato in piedi da un sito all’altro, fino alla piattaforma di lancio. Fa una certa impressione vedere questo matitone spostarsi da un sito all’altro. 

Il VEGA invece viene assemblato direttamente sulla rampa di lancio, all’interno di una specie di capannone verticale, che viene poi spostato al momento del lancio.

Per chi vuole approfondire il tema c’è un bel file PDF da leggere. Risale al 2005, non è quindi aggiornatissimo. Ma rende l’idea. 

Cosa ci faccio in Guyana

L’azienda per cui lavoro collabora  con il CSG e realizza sistemi di controllo automatico per apparecchiature e impianti.  Nella fattispecie, senza entrare in dettagli che potrebbero anche essere protetti o sensibili, abbiamo realizzato un sistema di controllo per sistemi di recupero dei gas tossici che si sviluppano durante il travaso del carburante nei vettori. Io sono stato mandato qui per tenere un corso di addestramento per manutentori di questi sistemi, e per mettere in funzione uno di questi sistemi. La messa in funzione del sistema è stata parte integrante di questo corso di addestramento.

Ho lavorato per due settimane, senza saperlo,  sotto la rampa di lancio del VEGA. Pensavo di essere sotto una costruzione qualsiasi di assemblaggio. 

Il capannone di assemblaggio del VEGA
Il capannone di assemblaggio del VEGA

 

Quel grosso palazzo che si vede qui sopra, un mezzo ai quattro enormi parafulmini, è il posto dove vengono assemblati i vari pezzi del VEGA. Nel filmato che ho inserito più sopra si vedono le varie fasi del montaggio del vettore. Quel che non sapevo è che, quando il missile è pronto, quell’enorme palazzo viene letteralmente fatto scorrere indietro, lasciando libera la rampa di lancio.

Il VEGA nel capannone di assemblaggio
Il VEGA nel capannone di assemblaggio

Quel che si vede qui sopra è il VEGA pronto, ancora dentro il capannone di allestimento, ma con le porte aperte.

Il VEGA fuori dal capannone, pronto al lancio
Il VEGA fuori dal capannone, pronto al lancio

Qui accantosi vede il palazzo arretrato, e il missile pronto alla partenza.

Il lancio del VEGA -1
Il lancio del VEGA -1

E qui si vede il missile al momento del lancio, con il palazzo nella sua posizione di lancio.

Il lancio del VEGA - 2
Il lancio del VEGA – 2

 

 

 

Discorsi sotto l’albero.

Non si dovrebbe fare, ma spesso si finisce per dimenticare accesa la tv mentre si chiacchiera, sgranocchiando frutta secca o panettone.

A casa mia la TV è spesso sintonizzata su un canale all news, di quelli che passano le notizie a nastro, facendo solo qualche sosta per la pubblicità.

E stamattina, mentre facevamo colazione, ho sentito mia mamma sbottare “ma che senso ha tirar fuori queste cose dopo 20 anni? Però prima sono state zitte, quando le faceva comodo!”.

Oddio, no! La solita storia delle attrici che hanno deciso di raccontare quando #metoo, quando anche loro hanno dovuto subire approcci sessuali dal produttore o dall’attore o potente di turno.

Anche mia mamma, come tanti, dovendo scegliere il bersaglio  per la propria insofferenza, per non dire indignazione, ha deciso di prendersela con la lei di turno. Gli argomenti sono tanti. “Perchè è stata zitta tutto questo tempo? Perché ha deciso di parlare solo adesso? Perchè ha accettato le avances del potente? Se le ha fatto comodo far carriera, perché adesso viene a rompere le scatole?”.

Quello che mi stupisce è vedere che anche le donne impugnano questi luoghi comuni. Già risultano insopportabili quando vengono sputati con acidità dagli uomini, mi aspetterei dalle donne un atteggiamento meno ingiustamente censorio.

Quel che succede è che si sbaglia mira. Dovendo sparare un colpo, uno solo, si decide di puntare il fucile sulla vittima invece che sul carnefice. “Lei poteva dire di no”. Sul bastardo che approfitta della sua posizione per ottenere indebiti favori, si glissa. L’espressione del viso si accartoccia, come in certi film dell’orrore, ed esprime balbettando monconi di scuse incomplete: “ma l’uomo….sai…..certo… d’altra parte si sa…. come sono fatti gli uomini…. è la donna che deve…..”

Tanta gente si è già cimentata a scrivere su questo argomento. Mi ci provo anche io.

Prima obiezione: “Le ha fatto comodo per fare carriera”. Eh già. Qualcuno, che in quel momento ha il potere, decide di far lavorare non chi se lo merita, ma chi accetta di far sesso. La ragazza (ma sappiamo che è successo anche a uomini) può scegliere, certo. Può, certo, rinunciare ai propri sogni e al lavoro per il quale ha magari studiato anni all’accademia. Può, certo, lasciar perdere, aspettare il prossimo tram, magari fra un anno, magari fra due. E intanto servire hamburger al mac, o lavar piatti in un cinese. Dove, magari, il padrone ogni volta che ti passa dietro ti tocca il culo e se protesti sei libera di andare, che ce ne sono altre che aspettano il posto. E allora perché, se hai una pallottola, una sola, la usi per sparare su di lei, e non sul bastardo che si approfitta della situazione per fare i comodacci suoi.

Seconda obiezione: “Poteva dire di no. L’hanno fatto in tanti”. Certo, avrebbe potuto. Ma questa in fondo ricalca la prima obiezione. Gli elementi sono gli stessi.

Terza obiezione: “Perché ha aspettato tutto questo tempo? Perché non l’ha denunciato subito?” Eh già. Facile. Quando ti senti sola. Quando tutti, per il solo fatto che sei donna e vuoi fare l’attrice, nel loro intimo pensano che comunque un po’ bagascia sei.  Quando sei abituata, in quanto donna, a pensare che quando si approfittano di te è comunque in parte colpa tua. Quando, da sempre, sei abituata a nascondere le violenze subite perché la prima domanda sarà “ma tu cos’hai fatto?”. E allora te lo tieni dentro. Pensi che forse è anche colpa tua. E ti vergogni, per non aver saputo dire di no, per non avere avuto il vaffanculo pronto. Per non aver avuto il coraggio di sottrarti, per essere stata vigliacca, per aver accettato un sordido compromesso. Te lo tieni dentro per anni, cerchi di non pensarci. E poi un’altra parla, racconta, dice ad alta voce qual che tu avresti voluto dire subito, ma te ne è mancato il coraggio. E allora capisci che è questo il momento. Per te, e per le ragazze che verranno dopo di te. Perchè si sappia, tardi per te ma non per loro, che il mondo è sempre andato così, ma forse può cambiare, può essere diverso. E un’attrice potrebbe anche trovar lavoro senza essere costretta a darla via, senza dover scegliere fra lavoro e dignità. E perché a te è andata anche bene, che in cambio hai avuto fama e successo. Ma quante donne, invece, hanno dovuto subire le stesse imposizioni (se non vogliamo chiamarle con il loro nome: violenze) in ufficio, nella cucina di un ristorante, ovunque ci sia un capo con il potere di licenziarti se non ci stai.

Ce ne sarebbero altre di considerazioni di fare. Ma il succo è il solito. A molti dà fastidio questo coro, questa pioggia continua di #metoo, di “è successo anche a me”. Danno fastidio queste donne che alzano la testa, che gridano che non ne possono più di dover subire queste forzature dei loro desideri, questi ricatti. Questo modo di dire “sei un essere inferiore, e se vuoi un lavoro, una carriera, devi fare quel che ti dico io”.

Certo, ci saranno anche quelle che ne approfittano, per ricavarsi un po’ di notorietà. O quelle che hanno avuto un passato un po’ borderline, e allora vengono usate come esempio per dire “visto? E’ tutta una pagliacciata, è una bolla che poi si sgonfia, e’ solo una scusa per far parlare di sè. ” A molti giornalisti non sembrerà vero citare l’Asia Argento di turno o il caso dell’attore insidiato dalla produttrice. A molti non sembrerà vero poter sgonfiare il caso, poter concludere “tranquilli, uomini, non è successo niente. Un paio di ninfette che hanno voluto sollevare un polverone per niente. Tranquilli, poi passa, potrete toccare tranquillamente il culo alle vostre segretarie, e licenziarle se protestano”.

Ci son quelli, come Marilyn Manson, che dicono “Bisognerebbe raccontarlo alla polizia, e non ai media”. Dimostrando così di non capire. Raccontarlo alla polizia, dopo vent’anni, serve e non serve. Non serve a niente alle ragazze che queste violenze (si, sono violenze) dovranno affrontarle domani, fra un anno, fra due, fra dieci anni. Non serve a modificare, almeno un po’, le coscienze.  A questo serve parlare, anche dopo dieci, vent’anni. Serve a far crescere la consapevolezza, raccontare che queste cose succedono, si, ma ci si può opporre. Ci si deve opporre.

Il punto sull’auto elettrica

Ormai le auto elettriche girano per le nostre città. Non sono più una mera ipotesi.

Eppure c’è ancora chi titola “Tanti, immensi, forse irrisolvibili problemi della auto elettriche: ecco perché anche solo parlarne è una immensa cazzata” e chi nei commenti aggiunge: “Quasi convengono gli idrocarburi….. Non quasi: convengono alla grande rispetto all’auto elettrica!“.

Io mi interesso da tempo all’auto elettrica. Circa 10 anni fa, nel 2007, avevo dedicato alcune pagine del mio sito all’auto elettrica. Mi prefiggevo di seguire il fenomeno, creando un blog. Poi la cosa è rimasta lettera morta. Ma in questa pagina ho tentato qualche analisi numerica che riprenderò qui. Non sono un professionista del campo, quindi quel che andrò a scrivere non è oro colato. Anzi, attendo con ansia sincera che qualcuno mi dica dove sbaglio.

Ma qualche idea me la sono fatta. Nel seguito proverò a fare il confronto fra auto elettrica e auto “termica”, ossia auto a benzina o diesel.

Diciamo prima di tutto che l’auto elettrica INQUINA. Chi dice che non inquina vi prende in giro. L’auto elettrica utilizza (appunto) energia elettrica. E questa si fa per lo più con il petrolio. Quindi è facile capire che l’auto elettrica in realtà va a petrolio. E allora, dov’è il vantaggio?

Prima di passare ai conti, vediamo i vantaggi che tutti possono capire.

Primo elemento: ottimizzazione

L’energia per alimentare le auto elettriche si fa in una centrale elettrica. Le centrali elettriche sono, o dovrebbero essere, ottimizzate. Il che significa che spremono fuori da ogni goccia di petrolio quanta più energia elettrica possibile. Inquinando (così ci dicono) il meno possibile. In più una centrale elettrica è regolamente controllata e manutenuta. Se è vero quel che dicono i sostenitori del termoelettrico (solitamente contrari al solare), le centrali termoelettriche inquinano poco e ottengono il miglior rapporto fra energia generata e combustibile consumato. Prendiamolo per buono.

Per contro le auto termiche (motore a scoppio) sono ottimizzate solo quando sono molto recenti e ben tenute. Basta poco perché un’auto termica peggiori il suo rendimento. Un filtro intasato, un motore non a punto. O un motore vecchio. Tutti elementi che peggiorano notevolmente i rapporto fra km e consumo. Meno km/litro. Più inquinamento.

Secondo elemento: dove si inquina.

L’auto elettrica inquina, lo sappiamo. Ma inquina dov’è la centrale. Ossia solitamente in zone meno densamente abitate. Raramente le centrali vengono posizionate al centro di zone densamente abitate. Quindi, l’energia elettrica per le auto elettriche viene prodotta (e inquina) in zone dove le persone danneggiate dai fumi sono di meno. Una centrale elettrica scarica il suo inquinamento dove c’è poca gente.

Le auto termiche, invece, il danno maggiore lo fanno dove il traffico scorre lento, tipicamente nei centri delle grandi città, densamente abitate. Il che significa che un’auto termica scarica il suo inquinamento direttamente nei polmoni di milioni di persone.

Mi si dice “la pianura padana è una conca, e hai voglia a spostare le centrali, l’inquinamento riguarda tutti”. Si, vero. Ma a parte il fatto che la Pianura Padana è un caso particolare, resta comunque il fatto che se la centrale elettrica fosse in piazza duomo a Milano sarebbe molto peggio. E’ comunque meglio metterla molto fuori, in una zona a bassa densità abitativa.

Terzo elemento: semplicità

I tecnici lo capiscono: un motore elettrico è infinitamente più semplice rispetto ad un motore termico. Non ha carburatore (o equivalente), frizione, cambio, messa in moto. Sono migliaia di pezzi, viti, guarnizioni, tubicini, galleggianti, ingranaggi. E, si sa, quel che non c’è non si rompe. In un’auto elettrica la manutenzione sarà incredibilmente più semplice. Niente olio da cambiare, niente filtri. Niente candele. Niente acqua nel radiatore. Niente frizione da rifare, o catena della testa. Il motore elettrico è quasi eterno. Mal che vada si porta a fare riavvolgere. Semplicità significa meno costi di produzione e di manutenzione. Qualcuno mi dice “si, bravo, porta una Tesla a riparare e poi mi dici”. Non ci provate. E’ un argomento farlocco e potrei rispondervi male, perché oggi la Tesla è un prodotto di nicchia, una supercar. Occorre proiettarsi nel futuro, pensare a parità di numeri. Immaginare di paragonare, che so, una golf con motore a scoppio, prodotta in milioni di esemplcari, con una golf con motore elettrico, prodotta anche lei in milioni di esemplari. A regime, quindi. A parità di numeri prodotti.

I tre elementi citati sono interessanti. Ma non determinanti. Se l’auto termica consumasse molto meno petrolio di quanto ne consuma un’auto elettrica, allora il vantaggio sarebbe davvero misero o nullo. O negativo.

Bisogna allora tirare in ballo i numeri, che sono sempre quelli che ci aiutano a capire.

Alcuni dei numeri che andrò ad elencare sono incontrovertibili, facilmente verificabili da chiunque. Altri derivano invece da considerazioni spannometriche, non avendo io trovato fonti sicure. O non avendole trovate del tutto.

Per andare dal petrolio al movimento (km percorsi) occorre superare molti nodi, ognuno dei quali porta via energia. Sia che si tratti di auto termiche che di auto elettriche.

Perdite auto termica

Diciamo che partiamo dal petrolio. Vediamo quali sono i costi per fare andare un’auto termica.

Trasporto: ammettiamo che i costi energetici di raffinazione siano uguali. In realtà in termini di raffinazione la benzina, e anche il gasolio, costano di più rispetto all’olio che si usa in una centrale elettrica. Ma trascuriamo questa differenza (anche perchè non la so quantificare) e parliamo del trasporto. Anche questo è difficile da quantificare, ma comunque il carburante va trasportato dalla raffineria al distributore. E stavolta non è un costo marginale. Difficile quantificare quanto possa incidere, in termini energetici. Diciamo un 2%? Non ce lo dimentichiamo.

Rendimento del motore: un motore a scoppio è un motore terribilmente inefficiente. Circa il 70% dell’energia viene buttata via in calore, dal tubo di scappamento e dal radiatore! Infatti, ad andar bene, a regime ottimale, un motore ha un rendimento del 30%. A regime ottimale. Ma i motori termici non vanno quasi mai a regime ottimale. A volte stiamo fermi in coda, a volte viaggiamo a 130kmh. Non di più, vero??? Quindi il motore varia il suo regime dal minimo al massimo, variando contemporaneamente la resa. Quando non va al regime ottimale, consuma di più. In oltre il motore termico ha bisogno di cambio e frizione, elementi che assorbono energia.  A spanne, direi che non superiamo il 25% di resa. Ossia buttiamo via il 75% della benzina che comperiamo. Aggiungiamo il fatto che quando freniamo dissipiamo, nuovamente in calore, tutto “il movimento” (energia cinetica, inerzia) che abbiamo acquisito accelerando. E siccome, soprattutto in città e nel traffico, non facciamo altro che accelerare e frenare, aggiungiamo un altro elemento di consumo. Non potendolo quantificare, teniamolo in quel 75% di spreco.

Riassumendo, quando va bene, un’auto termica ha un rendimento del 25% (lasciamo stare il trasporto e la raffinazione).

Perdite auto elettrica

Anche per l’auto elettrica non sono rose e fiori. Anche qui ci sono vari nodi in cui l’energia si perde, si spreca. E non è facile rimediare.

Generazione: l’energia elettrica viene generata in centrale, bruciando petrolio.

Attenzione, qui si introduce una semplificazione a vantaggio dell’auto termica. Ossia si assume che l’energia elettrica venga sempre generata usando petrolio. In realtà uno dei grandi vantaggi dell’auto elettrica è che la si può alimentare con energia elettrica proveniente da molte altre fonti: gas naturale, nucleare, solare (elettrico o termico), eolico, idroelettrico. Tutte fonti meno inquinanti del petrolio. Ricordiamocelo.

Il processo di generazione dell’energia elettrica dal petrolio non è molto efficiente. Molta energia viene sprecata in calore, che viene disperso dal camino o nei corsi d’acqua che alimentano la centrale. Raramente viene recuperato in parte come termoriscaldamento. Diciamo che una centrale elettrica ottimale ha un rendimento del 60%. Ossia spreca il 40%.

Trasporto: non sembra, ma anche il trasporto dell’energia elettrica comporta delle perdite. Anche in questo caso l’energia si disperde in calore. I fili dell’alta tensione si scaldano, quando trasportano energia. Io non sono mai andato a toccare per verificare, ma le fonti dicono che le perdite di trasporto sono circa del 10%. Non poco. Certo, non è il 40% come dice qualcuno, ma ha il suo bel peso.

Perdite di carica: anche qui, caricare le batterie non è a costo zero. Non è che se buttiamo 100kWh di potenza nella batteria, poi ce la ritroviamo tutta disponibile. In realtà quando carichiamo le batterie queste si scaldano. Più velocemente le carichiamo, più queste si scaldano. E il calore è tutta energia sprecata. Mica lo recuperi per scaldare casa!. Quanta energia sprechiamo? Te l’ho detto, molto dipende dalla velocità di carica. Se hai tempo tutta la notte, poca. Se vuoi la ricarica rapida, come gli ultimi telefonini, un casino! Prendiamo quindi un valore plausibile, che è quello del 25%. Se va bene, carichiamo 100 e ce ne ritroviamo 75. Il resto è perso.

Perdite di conversione: qui la cosa si fa un tantinello tecnica. L’energia delle batterie non viene mandata direttamente al motore, altrimenti questo andrebbe sempre a manetta. CI vuole in mezzo un sistema di riduzione, un po’ come l’acceleratore nell’auto a benzina. Si chiama inverter, e non lavora gratis. Anche lui vuole la sua parte della torta, la sua tangente. Ma non è troppo avido, ormai gli inverter viaggiano sul 5-7% di perdita. Non poi cos’ male.

Rendimento del motore: brutto a dirsi, ma anche il motore elettrico vuole la sua parte, la sua tangente. Parte dell’energia che riceve la dissipa in calore, che si disperde nell’aria. Brutta storia. Al mondo non c’è nessuno che fa niente per niente. Però anche il motore non è poi così avido, è amico dell’inverter, e si accontenta di un 5, max 7%. Il resto lo dà tutto in movimento. Anche il motore, come gli inverter, risente molto dei progressi tecnologici. Si studiano motori sempre più efficienti, sempre più leggeri. Tanto che se ne stanno studiando addirittura versioni per aeroplani elettrici.

Abbiamo finito? no. Ci sono elementi che non so valutare:

  • Il costo energetico per costruire le batterie e per smaltirle. D’altra parte non so neanche valutare il costo energetico per costruire un complicatissimo motore a scoppio.
  • Il vantaggio del recupero energetico in frenata. L’auto elettrica, quando frena, ricarica le batterie. L’auto termica invece spreca l’energia cinetica e la trasforma in calore.

Ma, insomma, un’idea ce la siamo fatta. Adesso tiriamo le somme. Ricordandoci che i rendimenti ( o le perdite) non si sommano, si moltiplicano.

Per l’auto elettrica dobbiamo tener conto di più elementi:

Generazione 60% x trasporto 90% x carica 75% x inverter 93% x motore 93% = 0.6 x 0.9 x 0.75 x 0.93 x 0.93 = 0,35 ossia efficienza del 35%. Per l’auto termica avevamo un rendimento stimato del 25%.

Perbacco, non è che siano cifre da capogiro. Insomma, l’auto elettrica consuma meno petrolio dell’auto termica. Mica tanto di meno. Ma meno.

Mi preoccupa il fatto che ogni volta che rifaccio i conti mi vengono diversi, ma questo è normale, visto che vado a pescarmi i dati sul web, e non sempre dalle stesse fonti. E poi, nel caso dell’auto elettrica per prudenza mi son tenuto basso con i rendimenti (alto con le perdite). Si fa così quando si vogliono evitare casini.

Non si può dire che l’auto elettrica consumi la metà rispetto ad un’auto termica, in termini di litri di petrolio. Ma consuma sensibilmente di meno. Dati 100litri di petrolio, un’auto termica ne spreca 75, un’auto elettrica ne spreca “solo” 65. Come dire che un’auto termica consuma il 15% di più rispetto ad un’auto elettrica. Secondo me ho sbagliato qualcosa, pensavo che il divario fosse maggiore. Ma comunque va bene così.

Quindi? Tutti auto elettrica?

Neanche per sogno. Non siamo pronti per una migrazione di massa. Soprattutto non è pronta la rete di distribuzione. Se tutti stasera tornassimo a casa e attaccassimo l’auto elettrica alla spina, per ricaricarla, la rete di distribuzione andrebbe al collasso. E poi dovremmo tutti chiedere una taglia maggiore, soprattutto chi ha il contatore da 3kW. Non ce la si fa. Una Mecedes classe A elettrica con una batteria da 36kWh (autonomia 200km) avrebbe bisogno almeno di 36/3 = 12 ore di ricarica, senza ovviamente usare frigo, condizionatore e altre utenze elettriche. Improponibile.

E poi dove la ricarichi? Il numero di punti di ricarica pubblici è ancora irrisorio. Così come pochi sono quelli che possono effettuare la ricarica in garage o in giardino.

Insomma, non siamo pronti. L’auto elettrica, oggi, è riservata a chi ha impianti elettrici potenti a casa, e comunque la usa a breve raggio. O, altrimenti, sa di avere stazioni di ricarica lungo il percorso. Ed ha pazienza di aspettare il suo turno e i tempi di ricarica.

Ma, a breve tempo, la cosa potrebbe prender piede. Poco per volta, ovviamente. Anche Roma non è stata costruita in un giorno.

Nota polemica

Eh beh, un po’ di peperoncino ci vuole, giusto? Ho scritto questo post per due motivi. Il secondo è che non è facile trovare in giro una sintesi come quella che ho fatto. Se qualcuno la trova, me lo comunichi. Sarà senz’altro più precisa e affidabile della mia.

Ma il primo motivo è che ho letto il post citato all’inizio, quello che dice “auto elettriche: anche parlarne è un’immane cazzata”. A parte la contraddizione immediata (se è una cazzata, perché ne parli?), quel che mi ha spinto a dire la mia è il fatto che, numeri alla mano, sembra che la conclusione possa essere diametralmente opposta rispetto a quella sostenuta da chi ha scritto il post. Voglio dire, se fosse davver un’immane cazzata anche il solo parlarne, i numeri dovrebbero essere vertiginosamente di segno opposto. Non solo un po’ diversi. Ma la differenza dovrebbe essere “immane”. E così non mi pare che sia. E allora la mia polemica non è verso chi mette in dubbio l’utilità dell’auto elettrica, ma verso chi, verità rivelata daddio, propone il suo punto di vista come assoluto e incontrovertibile.  Io, figlio del relativismo e forse del pensiero debole (sapessi almeno cos’è), soffro di orticaria quando mi si presentano questi tizi che hanno le certezze assolute, rocciose, inossidabili. Un conto è quando uno mi dice “mah, guarda, a conti fatti a me pare che …..”. E’ giusto, è lecito, ci sta. Ma quando uno implicitamente dà del pirla a chi pensa, ad esempio, che l’auto elettrica possa essere un’idea valida in prospettiva, allora l’orticaria prude, e mi spinge a dire la mia. Pronto ad essere confutato.

 

Pizzeria – adesso

Ed ecco il risultato finale. Direi niente male! Complimenti a TUTTI!

Come al solito, se vuoi qualche foto in formato originale, chiedi.

Pizzeria – prima della cura

Alberto si è lanciato nella ristorazione. Ha rilevato la pizzeria d’asporto del suo ex capo, dove lui lavorava come ragazzo delle consegne. Il fratello lo sta aiutando nella ristrutturazione.

Ecco la pizzeria com’è adesso. A breve arriveranno i render del progetto.

 

Catalogna

Quel che sta succedendo in Catalogna mi ispira, come spesso succede,  sentimenti e valutazioni contrastanti.

Da un lato la mia anima ribelle è tutta a favore degli indipendentisti, così, a prescindere. Mi piace la ribellione contro l’ordine costituito. Senza questo spirito di ribellione saremmo ancora nelle caverne, se non sugli alberi. Il potere per sua natura è conservatore, tutela se stesso, anche quando si ammanta di paramenti rivoluzionari. Nessun potere ha interesse al cambiamento. Al massimo, per tutelare se stesso, il potere finge di appoggiare o addirittura di ispirare qualche cambiamento. Meglio governare un cambiamento di cui si mantiene il controllo che doverlo subire.

Dall’altro lato mi rendo conto che la società, per sopravvivere, per essere società, ha bisogno di regole. Senza le regole esiste solo l’arbitrio. Quando non ci sono regole condivise emerge l’unica regola che funziona sempre e ovunque: la legge del più forte.

Nessuno di questi due pensieri può considerarsi definitivo. Stolto chi crede che la conservazione ad oltranza o il cambiamento continuo possano essere la soluzione per chi cerca un giusto governo delle cose e delle genti. Sarebbe bello, sarebbe facile, sarebbe consolatorio. Basterebbe essere sempre conservatori o sempre progressisti per andare verso il famoso “mondo migliore”, o quanto meno “il migliore dei mondi possibili”. Purtroppo non è così semplice, e bisogna accettare il fatto che occorre fare sempre fatica. Occorre sempre decidere, sapendo che l’errore è probabile, quando applicare una ricetta e quando applicare l’altra. Il che non solo ci destabilizza e ci costringe a vivere in un mondo senza confortanti riferimenti stabili, ma ci obbliga anche a dover ogni volta studiare, indagare, informarsi, capire.

Oggi in Catalogna sta maturando un processo che dura da centinaia di anni, per lo meno da quando  nel 1714, nella guerra di successione Spagnola, la Catalogna e tutta la Corona d’Aragona perse una buona parte di potere a vantaggio di un accentramento verso la corona di Castiglia. Con alterne fortune la Catalogna cerca da sempre di conquistarsi una qualche forma di autonomia o addirittura di indipendenza, questione più o meno archiviata ai tempi del post-Franchismo, nel secolo scorso, e tornata d’attualità nei primi anni del 2000.

Il principio di autodeterminazione dei popoli è stato inserito nel 1945 nella Carta delle Nazioni Unite e individua come fine delle Nazioni Unite:
“Sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto e sul principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’auto-determinazione dei popoli…”

D’altra parte esiste anche il diritto/dovere degli stati di tutelare la propria integrità, e in questa direzione si è più volte espresso il governo centrale spagnolo, fino all’ultima determinazione della Corte Costituzionale il 25 marzo 2014 che ha dichiarato incostituzionale ogni referendum per l’indipendenza della Catalogna.

Si confrontano quindi due diverse esigenze. Da un lato il diritto all’indipendenza, dall’altro quello costituzionale a difendere l’integrità territoriale della Spagna.

Da un lato il cambiamento, dall’altro il rispetto della legalità costituzionale.

Non è compito mio dare ragione all’uno o all’altro, non sono uno di quelli che hanno in tasca le verità rivelate, spesso dettate più da un senso di appartenenza a questo o quello schieramento che da una reale conoscenza dei fatti.

Però mi viene spontaneo pensare ai fatti di casa nostra, dove si agitano sensibilità che alcuni reputano analoghe. La Lega, qualsiasi sia il nome che utilizzano adesso, ha spinto molto in passato sull’idea di una autodeterminazione del popolo padano. La differenza è del tutto evidente: non esiste una lunga tradizione di autonomismo lombardo o padano. Non esiste un reale movimento autonomista padano. Il massimo che hanno saputo esprimere gli indipendentisti padani è il Tanko dei Serenissimi Padani su cui è fin troppo facile esercitare la nostra ironia.

Tanko dei
Il “Tanko” della “Veneta Serenissima Armata”

Se dovessi giudicare la questione Catalana con un occhio alle cose padane, mi verrebbe da liquidarla con uno stentoreo “ma lascia stare!”.

Lì però c’è gente che fa sul serio, tanta, e che dà voce ad una lotta indipendentista che dura da secoli, non una cosa folcloristica inventata in un bar da un tizio in canottiera. E comunque lì c’è la maggioranza dei catalani che chiede di potersi esprimere con un voto. E’ sensato impedire alla gente di esprimere la propria opinione? Certo, da li a decretare tout court l’indipendenza ce ne passa. Ma che democrazia è quella che impedisce alla gente di potersi contare? Di esprimere il proprio SI o NO rispetto ad una qualsiasi questione, soprattutto se questa questione nasce non strumentalmente ma sull’onda di un movimento pluricentenario?

A me pare che ai Catalani dovrebbe essere lasciata la libertà di votare. Cosa farne poi, di questo voto, è tutto da vedere. Nessuna costituzione prevede la gestione delle indipendenze, nessuna costituzione prevede la frantumazione dello stato centrale. Simili processi devono necessariamente passare in qualche modo sopra la costituzione, prevederne una modifica. Ma la modifica non può che passare attraverso il processo democratico del “contarsi”. E non è bello vedere la polizia dello stato centrale che spara pallottole di gomma contro chi vuole solamente esprimere democraticamente una propria idea di libertà attraverso lo strumento principale della democrazia: il voto.