14 febbraio 2009

Un passo di troppo

Leggo oggi su l'Eco di Bergamo (in questi giorni lavoro a Ranica(BG)) un interessante resoconto sull'incontro che due malati di SLA hanno avuto con il pubblico. L'incontro aveva lo scopo di presentare il libro "Ma cosa ho di diverso? Conversazioni sul dolore, la vita, la morte" scritto da uno di loro, il medico dott.Mario Melazzini. L'altro ammaltato presente è il sacerdote don Roberto Pennati. Dall'incontro emerge la storia personale dei due malati e la loro convinzione che, in caso di gravi malattie degenerative come la SLA, occorre parlare di "diritto alla vita" invece che di "diritto alla morte". Torna un po' la distinzione artificiosa fatta dal presidente del consiglio SB fra un "partito della libertà e della vita" contrapposto ad "partito dello statalismo e della morte".
Torna l'esigenza di polarizzare la situazione, di indentificare due parti contrapposte.
Polarizzazione cercata non certo da don Pennati e Melazzini, ma da coloro che hanno fatto di tutto per strumentalizzare la tragica storia di Eluana.
Le posizioni del dott.Melazzini e di don Pennati sono coraggiose e soprattutto vengono da chi la malattia la vive in prima persona, sul proprio corpo che progressivamente rifiuta di collaborare. Entrambi hanno sottolineato la loro esigenza, comune ai malati terminali di questo tipo, di avere soprattutto digità di persone e attenzioni.
Questa loro posizione è del tutto condivisibile.
Ma sarebbe bello se potessimo fermarci qui. Se potessimo accettare il fatto che la loro è "una posizione", e non "la posizione". Se potessimo accettare che ci sono malati che affrontano la malattia in modo divero. Non si può ridurre tutto al fatto, del tutto ipotetico, che alcuni di questi malati siano abbandonati a se stessi, privati di amicizia e di amore, e che quidi non abbiano la forza di affrontare fino in fondo il loro calvario. Certe malattie diventano difficili da sopportare soprattutto nelle fasi terminali, quando il corpo diventa una prigione totale, senza alcuna possibilità di movimento o di comunicazione, se non con un leggero movimento degli occhi. E quando la prospettiva futura è solo la morte per totale paralisi anche dei muscoli della respirazione. O forse neanche quella, perchè un respiratore può mantenerci ugualmente in vita.
Alcuni affrontano questa situazione a testa alta, con il coraggio che gli viene dal carattere o da convinzioni personali o religiose. Ma altri hanno sensibilità diversa, un coraggio diverso. Si dovrebbe evitare quel passo di troppo, di ritenere che l'unica posizione accettabile sia quella di chi decide di combattere fino in fondo la battaglia per ritardare la morte anche di un solo mese, anche di un solo giorno.
Si dovrebbe accettare che rispetto a questo fatto esistono sensibilità diverse. Ed accettare quindi la volontà di chi preferisce abbreviare l'agonia, lasciare che la natura segua il suo corso senza ricorrere ad artifizi quali la ventilazione o l'alimentazione forzata. Che poi si voglia chiamarlo suicidio assistito o eutanasia o (come la chiamerei io) morte naturale, poco importa, sono solo nominalismi. La verità, semplice, è c'è chi, sorretto da incrollabili convinzioni, vorrebbe seguire un percorso di resistenza ad oltranza. Altri che preferiscono lasciar fare alla natura. Perchè una delle due posizioni dovrebbe essere più accettabile dell'altra? Perchè la legge dovrebbe imporre uno dei due comportamenti?

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