01 novembre 2009

L'indifferenza

Siamo rimasti tutti colpiti dall'indifferenza con cui la gente di Napoli ha ignorato l'omicidio di un pregiudicato nel video diffuso dalla procura.
Le cause, le capiamo tutti, sono tante. Prima di tutto la paura. A Napoli molta gente è abituata a sopravvivere solo ignorando gli eventi di malavita che gli avvengono intorno.
Ma poi, secondo me, c'è anche l'abitudine all'orrore.
Una volta l'orrore era un'eccezione. Nelle vite dei nostri nonni l'orrore era una potente suggestione. Veniva raccontato da chi era stato un guerra. Oppure dagli attori di qualche teatro viaggiante, il cui passaggio restava un evento negli anni.
In sicilia l'orrore lo raccontavano i cantastorie.
Era un orrore raccontato, mai visto. Solo in casi assolutamente eccezionali capitava di assistere ad un omicidio, alla morte violenta di qualcuno.
Ma poi il cinema, e la televisione, hanno reso consueto l'orrore della morte violenta.
Oggi tutti abbiamo gli occhi pieni di gente che muore colpita da una pallottola, o massacrata di botte, o torturata, o colpita da una bomba. Siamo abituati all'orrore, non ci sconvolge vedere qualcuno che tranquillamente, mentre esce dal bar, estrae la pistola ed ammazza un poveraccio che stava tranquillamente fumando.
Anzi, rispetto a tanto sangue, a tanto splatter, a tanta esibizione di violenza, questa sembra una cosa pulita, veloce, senza tanto rumore, senza schizzi di sangue. E' quasi un omiciodio educato, riservato. La gente può anche far finta di niente. Abbiamo visto di peggio.

E poi una volta la violenza, quando arrivava, riguardava i nostri vicini, spesso parenti, che conoscevamo da sempre, e non potevamo certo restare indifferenti. Dovevamo intervenire, difendere. E se non potevamo evitare la violenza, ne restavamo colpiti, partecipi, stravolti.
Oggi viviamo in città enormi, circondati da sconosciuti, che spesso parlano un'altro dialetto o un'altra lingua.
La violenza non ci riguarda più perchè colpisce "altri", gente che non conosciamo, che non fa parte della nostra vita. Al massimo ci coinvolge come spettacolo. Ma neanche tanto, perchè siamo abituati a ben altro.
E' un po' come per il calcio. Una partita vista allo stadio avrà anche il suo fascino. Ma la vedi meglio a casa, sul plasma a 50pollici, seduto sul divano con gli amici, e mille telecamere che inquadrano persino le gocce di sudore sulla fronte dei calciatori.
Non c'è niente di interessante in uno che ammazzano al bar sotto casa. Lo vedi meglio in televisione, ti diverti di più.


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24 aprile 2009

Santoro, canone RAI e informazione.

Da anni sento ripetere questa litania: "non è giusto che questa gente faccia un uso crimonoso della televisione pubblica, pagata con i soldi dei cittadini, per attaccare tutto e tutti".
L'uso "criminoso" consiste nell'avere idee diverse ripetto all'attuale mainstream governativo, nel dire le cose che altri preferiscono tacere, nel dar voce a chi altrimenti sarebbe condannato al silenzio.
Dice letteralmente Berlusconi: "L'uso criminoso di una televisione pubblica pagata con i mezzi di tutti consiste nell'attaccare gli avversari senza dare a questi avversari la possibilità di una replica, cosa che Santoro continua impunemente a fare anche adesso".
Ci si ripara dietro il dito dell'equilibrio, dicendo che non si dovrebbero fare trasmissioni a senso unico senza contraddittorio.
Come se ogni trasmissione, in se, dovesse realizzare l'equilibrio e rappresentare per ogni argomento tutte le possibili versioni, interpretazioni e valutazioni. E' chiaro che l'osservatore prevenuto avrà sempre da discutere sul fatto che la scelta degli invitati è stata pilotata e non suffientemente rappresentativa di tutte le posizioni, che non a tutti sono stati dati gli stessi tempi, che il montaggio delle immagini televisive era fatto ad arte per indurre nel telespettatore un certo tipo di convinzione, e via elencando quei trucchetti televisivi che ormai conosciamo tutti. E' chiaro che il conduttore televisivo finisce per riversare una parte delle sue convinzioni nel prodotto televisivo.
In questo tipo di argomentazioni ci si riferisce alla gente che paga il canone come ad un unicum, un tutt'uno monolitico. Dimenticando che la gente che paga il canone sarà, come gli elettori, divisa a metà fra destra e sinistra. Alcuni gradiscono i programmi filogovernativi stile Vespa, altri gradiscono programmi di informazione meno allineata, stile Santoro.
Non si capisce perchè gli uni debbano cedere il posto agli altri. I dati di ascolto della trasmissione di Santoro hanno superato il 20%, dato che pare essere eccezionale.
Sappiamo tutti che non vale l'equazione share=qualità, altrimenti dovremmo dire che trasmissioni come il grande fratello, che superano spesso il 25%, sono quelle di maggior qualità.
Ma qui non è in ballo la qualità delle trasmissioni. E' in ballo il diritto di chi paga il canone a veder rappresentate anche le proprie idee e le proprie istanze.
Non si capisce perchè il fatto di pagare gli stipendi di gente come Santoro con soldi pubblici dovrebbe portare alla limitazione della loro libertà di espressione. E soprattutto alla limitazione della mia libertà di telespettatore di vedere anche quel che mi propone Santoro. A me le trasmissioni di Santoro piacciono, mi piace Report della Gabbanelli, mi piace in genere il giornalismo di inchiesta e la riflessione politica. E vorrei avere il diritto di vedere in televisione quel che piace a me e a tanti altri, come documentato dall'Auditel.
La RAI, in quanto TV pubblica, dovrebbe rappresentare le posizioni di tutti coloro che pagano il canone.
A meno che si preferisca un modello di TV pubblica asettica, senza confronto delle idee, tesa ad essere esclusivamente portavoce del governo. Soprattutto quando il governo è di una certa parte.
Sia chiaro, non siamo verginelle. Sappiamo benissimo che la tv pubblica, come tutto il sistema dell'informazione, è attraversata da tremende lotte di potere politico e finanziario. E nessuno è davvero innocente rispetto a queste lotte, a destra come a sinistra.
Ma teorizzare il fatto che tutte le voci dissonanti debbano essere soffocate grazie al fatto che "vengono pagate con i soldi dei contribuenti" mi pare davvero antidemocratico.

Recentemente, in occasione del terremoto a l'Aquila, Santoro è stato aspramente criticato per aver rotto il fronte dell'unanimismo, del volemose bbene, del tutto va ben madama la marchesa. Ha dato voce agli scontenti. A chi, a torto o a ragione, non era soddisfatto della tempestività degli interventi, dell'organizzazione e quant'altro.
Si può essere o meno d'accordo sulla scelta, sull'opportunità. Qualcuno, anche fra i miei amici, dice che nel momento del bisogno occorre stare uniti ed evitare le polemiche. Non voglio entrare in questo tipo di valutazioni.
Resta il fatto che a molti italiani, cittadini, telespettatori, quel taglio di trasmissione è parso adeguato. E questi italiani, cittadini e telespettatori (io fra di loro) hanno il diritto di veder rispettate le loro opinioni ed i loro gusti televisivi. Proprio perchè pagano il canone.

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26 agosto 2008

Come mai è successo tutto questo?

Eravamo una nazione vitale e forte. Non molto strutturati, certo. magari un po' arruffoni, certo. Con tutti i nostri difetti tipicamente italiani.
Ma andavamo forte, avevamo una forte identità e molta voglia di fare, forse simile a quella dei cinesi oggi.
Cosè successo poi? Com'è che siamo diventati così inefficienti, così corrotti, così disorganizzati. Com'è che il nostro paese ha una identità così appannata, a cosa dobbiamo questa scarsa capacità di reagire, di prendere in mano il nostro destino e spingerlo avanti, più avanti.
Si potrebbe pensare ad un ciclo naturale, al fatto che raramente i figli ereditano dai padri le stesse capacità creative ed imprenditoriali. E' convinzione comune che i nonni creano le imprese, i padri le conservano e i figli le distruggono. Non so se il nostro paese sta pagando questo prezzo generazionale, questa specie di tributo inevitabile al tempo che passa.
Mi chiedo se altri paesi, USA, Germania, Francia, UK, stanno pagando lo stesso prezzo.
Mi pare che l'Italia abbia una zavorra in più, qualcosa che ha spento la nostra capacità di reagire, di organizzarci, di creare.
E' come se avessimo perso la bussola, come se non sapessimo più in che direzione andare.
Azzardo una ipotesi, con la segreta paura di esagerare, ma forse neanche tanto.
E se fosse un fatto culturale? Se la cultura che respiriamo da più di vent'anni avesse, poco alla volta, corroso la nostra capacità creativa?


Sarà anche una mia idea fissa, ma secondo me non è privo di conseguenze vivere di "grande fratello", di "veline", di "isola dei famosi". Di spettacoli che hanno come protagosisti persone che diventano famose senza alcuna particolare capacità, senza nessun motivo particolare se non il fatto di "esserci". Spettacoli in cui vince, diventa famoso l'uomo più volgare, la donna più sguaiata, più disinvolta. Spettacoli che raccontano ai nostri giovani, e non solo a loro, di come si possono risolvere i propri problemi esistenziali partecipando ad uno spettacolo televisivo, senza essere necessariamente bravi a fare qualcosa. A guardare quegli spettacoli viene da pensare che non serva sbattersi più di tanto. In fondo basta un po' di faccia tosta, un briciolo di fortuna, e se ti prendono in un reality il problema è risolto.
Che dici, è una visione semplicistica? Forse.
Ma secondo me non è privo di conseguenze continuare per vent'anni di seguito a riempire la testa della gente di subcultura. La TV, checchè se ne dica, è oggi il maggior veicolo di cultura. I bambini se la bevono con il latte, fin dai primi mesi. E gli adulti non sono da meno. Anche quelli che, veleggiando oltre i 50, sono nati in anni in cui la televisione ancora non esisteva o trasmetteva poche ore al giorno. E, per altro, faceva vera cultura.
La televisione ha, negli ultimi 20 anni, proposto modelli che distano anni luce dalla vera cultura del lavoro. Ha proposto modelli di uomini rampanti, che raggiungono il successo grazie ad ardite operazioni finanziarie. Ha proposto, sull'onda di tanti film e serial del tipo "saranno famosi", il modello del ragazzo che raggiunge il successo ballando e cantando. Solitamente dopo pochi mesi di "duro addestramento". Non esistono, al cinema ed in televisione, le persone reali di cui ha bisogno il nostro paese. Non esiste chi passa anni sui libri per acquisire una professionalità, chi lavora in silenzio, duramente, per creare una impresa di successo. In televisione tutto succede in pochi giorni, al massimo in qualche mese, grazie all'idea giusta, grazie all'intuizione, grazie all'investimento azzeccato.
Non esiste il successo cercato, progettato, realizzato passo per passo, grazie anche ad un sistema scuola-industria che funziona.
Invasi, distrutti da questa subcultura, come possiamo pensare di salvare il nostro paese?

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